“Indietro tutta”, te la do io la grande guerra!
Quelli di “Indietro tutta” abbandonano il passo del gambero e, intruppati in una Bianchina d’epoca, procedono in retromarcia, a tutta velocità, verso le retrovie della storia presentando ai cittadini una Mostra fotografica sulla Prima Guerra Mondiale, dal titolo “FEDE E VALORI”, in occasione del centesimo anniversario della Grande Guerra.
Una mostra fotografica itinerante, composta da 18 pannelli forniti dallo Stato Maggiore dell’Esercito, che intendono raccontare i quattro anni della Prima Guerra Mondiale.
Ne dà notizia con enfasi il Sindaco di San Ferdinando di Puglia, non dal sito internet del Comune, ma dal suo profilo Facebook (??).
Con la Mostra “FEDE E VALORI” qual é l’idea di fede che si vuole comunicare? Non certo la fede nel Vangelo di Gesù Cristo, perché collegarla alla guerra sarebbe un’eresia. La FEDE dovrebbe essere quella nella religione della patria. I VALORI dovrebbero essere quelli del coraggio e del sacrificio dei soldati in guerra. Da amico della nonviolenza mi chiedo: se “il nostro compito quali esseri umani consiste nel compiere, all’interno della nostra propria, unica, personale esistenza, un passo in avanti sulla strada che dalla bestia porta all’uomo” (Herman Hesse), quale contributo alla crescita umana e culturale della nostra comunità e delle giovani generazioni di San Ferdinando di Puglia, nella direzione della pace mondiale e della sicurezza dei popoli, può apportare questa Mostra?
Se vogliamo davvero commemorare i tragici eventi legati alla Prima Guerra Mondiale, facciamolo con onestà, narrando l’altra storia, non quella addomesticata dalle istituzioni, che, con molta probabilità, non troveremo descritta nei pannelli della Mostra. L’aderenza alla verità storica è indispensabile perché, come scriveva il filosofo George Santayana, “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”. La guerra è un evento di violenza diretta. Il rischio, molto concreto, con questa Mostra, è di scivolare nella violenza culturale fornendo i parametri giustificativi della violenza diretta e della risoluzione violenta dei conflitti internazionali quale unica strategia praticabile.
La guerra è un tipico esempio di violenza istituzionale perché, quando la violenza è diretta e si esprime attraverso un conflitto armato, la giustificazione paradigmatica proviene dallo Stato. La stessa entità alla quale, attraverso un atto contrattualistico, ogni individuo affida parte della sua libertà per non essere annientato dalla logica dell’homo homini lupus, lo getta in pasto alla cieca voracità dell’impianto bellico. Riflettiamo per un attimo sulle conseguenze del primo conflitto mondiale. In Italia ogni città ha una lapide o un monumento dedicato ai caduti della Prima Guerra Mondiale. A distanza di un secolo da quella mostruosa carneficina, proviamo a chiederci chi erano questi figli della patria – ai quali con stanca ritualità porgiamo corone d’alloro e per i quali organizziamo Mostre commemorative – per che cosa morirono e se sono degli eroi come li dipinge la «morale guerresca».
Era gente semplice, per lo più contadini e artigiani, che nel 1914 fu chiamata dalla patria a fare la guerra ad una nazione che non stava aggredendo l’Italia. Ciò è potuto accadere perché la violenza istituzionale ha fatto dello stato una macchina. Allora «come impedire a un pazzo qualunque d’impadronirsi del timone e di spingere la macchina nel precipizio?». «Domani, scriveva Lev Tolstoj, qualche capo di stato, uscito di senno, dirà una sciocchezza, un altro vi risponderà con un’altra sciocchezza, ed io andrò ad espormi alla morte, per uccidere uomini che non solo non mi hanno fatto niente, ma che io amo! E questa non è una probabilità lontana, ma una certezza inevitabile alla quale ci prepariamo tutti».
Questa patria famelica – entità senza alcun significato per degli uomini semplici – li strappava contro la loro volontà agli affetti, alla famiglia, al lavoro; e con «una pagnotta e una borraccia di grappa» li mandava al massacro in una guerra di aggressione all’Austria, tra trincee, neve e fango. Scrisse Tolstoj: «Essi marciarono, come pecore al macello, marciarono senza ribellarsi, passivi e rassegnati, mentre erano la massa e la forza, e avrebbero potuto, se avessero saputo intendersi, stabilire il buon senso e la fratellanza». Questi nostri connazionali morirono per difendere idee e valori distanti mille miglia dalla «linea dei loro interessi». Morire in guerra è sempre inutile, ma, come diceva don Lorenzo Milani, «è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo».
Questi uomini sono morti senza scopo in «un’inutile strage», come Papa Benedetto XV apostrofò la Prima Guerra Mondiale. La morte inutile di 651.000 italiani e d’altrettanti austriaci poteva essere evitata. Giolitti era certo «di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 651.000 morti». Se l’Italia fosse rimasta neutrale avrebbe potuto ottenere Trento e Trieste in cambio della sua neutralità nella Grande Guerra. I segnali positivi dell’Austria in merito erano stati annotati da Giolitti. E poi, anche se la liberazione delle terre irredente in mano austriaca non fosse stata possibile senza una guerra, era comunque inutile «sacrificare la vita di mezzo milione di uomini per liberarne altrettanti».
Mentre il popolo reclamava pane e pace, e non fu mai convinto della necessità della guerra, la classe dirigente italiana, gli industriali e i finanzieri spinsero la nazione ad «un caldo bagno di sangue…» per trarre lucrosi profitti dalle commesse belliche. La politica e l’economia dispongono, la gente semplice, come al solito, è costretta a subire il sopruso dei potenti. “Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra ma, dopotutto, sono i leader della Nazione che determinano la politica, ed è semplice portarsi dietro la popolazione”. Che abbia voce o meno il popolo può essere portato a seguire le scommesse dei leader. E’ facile. Tutto quello che si deve fare è dirgli che sono stati attaccati, denunciare i pacifisti per la loro mancanza di patriottismo e perché espongono la patria al pericolo. Funziona in tutti i paesi”. (Herman Göring, Maresciallo del Reich, capo della Luftwaffe, Presidente del Reichtag. Dai verbali dei processi di Norimberga).
E allora, scriveva Tolstoj: «Si attizza il loro odio, persuadendoli di essere odiati» e così il volere di pochi crea «turbe furibonde di pacifici cittadini ai quali un ordine inetto metterà in mano un fucile». La verità come al solito è la prima vittima della guerra. La propaganda dipingeva gli austriaci come “coloro che accecano i bambini, li mutilano, crocefiggono i prigionieri, uccidono brutalmente suore e infermiere, veri antenati degli iracheni da sterminare settant’anni dopo. Lo dicevano i giornali, lo dicevano gli intellettuali, la guerra dunque è “giusta”. […] Una parte dell’opinione pubblica finì per credere nei “misfatti” dei “nemici”. Giosuè Borsi, giovane scrittore conosciuto per la mitezza del carattere e la devozione religiosa, così si esprime sui suoi “nemici” in una lettera alla madre: “Credi, mamma, che combattiamo contro la razzaccia più iniqua e barbara del mondo, e nessuna guerra potrebbe essere più santa di quella che abbiamo intrapreso per abbatterla per sempre e senza pietà.” (Alessandro Marescotti – Un’altra storia è possibile).
Poveri concittadini, inconsapevoli servi delle aspirazioni di dominio e di ricchezza di una classe dirigente sciagurata, seduta comodamente in panciolle al tepore del «radioso» sole di maggio, furono mandati al massacro o furono vittime della follia dei propri capi, come è successo ad Alessandro Ruffini, un soldato di Castelfidardo. “Stava marciando con la sua compagnia nei pressi di Noventa Padovana, in una cupa giornata del novembre 1917, dopo la rotta di Caporetto. Ruffini ha la sfortuna di incrociare lo sguardo di Andrea Graziani, conosciuto come “il generale delle fucilazioni”. Il soldato, forse per sfida, forse per disattenzione, non si toglie la pipa dalla bocca al passaggio del superiore. Graziani non ha dubbi: è insubordinazione. E ordina l’immediata fucilazione del poveretto, che viene eseguita sul posto nonostante le proteste di alcune donne presenti. Chiamato nel 1919 a giustificare il suo gesto, Graziani non si scompone più di tanto: «Valutai tutta la gravità di quella sfida verso un generale, valutai la necessità di dare subito un esempio terribile, atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia».” (Giovanni Grasso, avvenire.it)
La Prima Guerra Mondiale portò molti alla follia. Eccone un esempio. “Il generale Leone ordinò ad un caporale di sfidare il pericolo e di affacciarsi sulla trincea: ‘‘«Bravo!», gridò il generale. “Ora puoi scendere”. Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto. Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi chiusi, il respiro affannoso, mormorava: “Non è niente, signor tenente”. Anche il generale si curvò. I soldati lo guardavano, con odio. “E’ un eroe, commentò il generale. “Un vero eroe”. Quando il generale si drizzò, i suoi occhi si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell’istante , mi ricordai d’aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia città, durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale’. (Emilio Lussu, “Un anno sull’altipiano”) Ciò che Emilio Lussu afferma non era un’esagerazione soggettiva: in migliaia impazzirono realmente durante la guerra e si dovette ricorrere alla psichiatria. Si scoprì che non bastava una punizione molto severa per recuperare i ricoverati e resuscitare l’entusiasmo patriottico”. (Alessandro Marescotti – Un’altra storia è possibile)
Un’umanità forzata a fare una guerra incomprensibile divenne insofferente e insubordinata. Il malcontento e le diserzioni si moltiplicarono. La repressione fu feroce. Al rifiuto dei nostri soldati di tornare in trincea i comandanti italiani reagirono con terribili esecuzioni di massa dei reparti insubordinati, per impedire che i soldati prendessero la strada del ritorno a casa. Circa 1.100 soldati italiani furono giustiziati sommariamente o fucilati dai plotoni di esecuzione alle spalle per codardia e diserzione o al petto per rivolta. Diecimila soldati per non combattere commisero atti di autolesionismo, provocandosi gravi ferite. Altri 220.000 soldati furono condannati a pene detentive, tra i quali 15 mila all’ergastolo.
Questi soldati sono eroi? I nostri connazionali caduti non sono degli eroi, ma vittime della guerra, spediti al fronte per uccidere altre vittime della guerra loro simili. L’eroe, al contrario, è un uomo di eccezionale virtù e di fermezza irremovibile, che ben comprende la causa per cui sceglie liberamente di lottare fino al sacrificio della vita e mai la subisce per imposizione esterna. I nostri soldati, persone semplici e buone, furono costretti dalla guerra a fare cose atroci e furono uccisi da altri soldati meglio attrezzati e più rapidi di loro, mentre erano essi stessi dei potenziali omicidi. Lungi dall’essere onorevole, una simile sorte è «triste e vergognosa», perché è un partecipare agli orrori della guerra. Per questo non possono essere onorati come eroi. Essi sono vittime del meccanismo infernale della guerra, sacrificate sull’altare laico della patria». Di loro sopravviva in noi una profonda compassione per la loro sorte crudele e beffarda.