Smart education - la scuola può cambiare

Smart education - la scuola può cambiare

Il lungo processo di edificazione della Smart city necessita di una precondizione: la presenza di Smart people, una vasta gamma di persone dinamiche, creative e intraprendenti, la cui formazione compete principalmente alla scuola.

Matteo Della Torre, Mariella Dipaola

Ma l’istituzione scolastica italiana ha serie difficoltà a comprendere la sfida che le sta di fronte e ad assumersi l’onere formativo degli Smart citizen.

L’Italia sul digitale sta pagando almeno dieci anni di ritardo rispetto agli altri Paesi europei, per responsabilità che possono essere attribuite, tra le altre cause, alle gravi inadempienze storiche della scuola italiana e alla condizione di crisi profonda in cui versa, che è sintetizzabile in sei punti:

1. OSTINATA OPPOSIZIONE AL CAMBIAMENTO

Il mondo subisce trasformazioni ad un ritmo sempre più incalzante, a tal punto da rendere necessarie modifiche continue alle unità di misura del cambiamento. L’avvicendarsi delle innovazioni che in passato si misurava in millenni, oggi si completa nel giro di pochi mesi.

Mentre tutto questo accade, la scuola se ne sta a guardare il mondo attraverso la feritoia del suo fortilizio arrugginito, nel suo rifiuto ostinato del nuovo che la circonda.

La stridente contrapposizione tra il “fuori” di un mondo che cambia a velocità esponenziale e il “dentro” di una realtà sempre più stantia e immutabile si fa sempre più marcata.

Chi si pone sulle difensive potrà citare indispettito alcune “novità” introdotte recentemente dalla scuola: il registro elettronico e la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale).

In realtà, si tratta di cambiamenti che non hanno mai messo in discussione le fondamenta della scuola e non ne hanno mai cambiato la struttura profonda, limitandosi, nel migliore dei casi, alla digitalizzazione dell’esistente (il registro cartaceo e la lavagna di ardesia).

Al di là dei buoni propositi scritti nei documenti ministeriali e delle nuove terminologie, insieme ad una verniciata superficiale di modernità a quei buchi fatiscenti senza dignità denominati classi, la scuola italiana versa ancora in uno stato di immobilismo patologico che, nelle sue dinamiche fondamentali, ricorda molto il modello di istituzione scolastica creato nel 1800.

“La scuola non è cambiata. Le innovazioni tecnologiche, i nuovi programmi e le nuove metodologie hanno migliorato l'efficienza del sistema scolastico, ma non sono riusciti a cambiare la scuola. Secondo la teoria dei sistemi, si tratta di mutamenti particolari che non bastano a modificare il sistema e che prima o poi vengono riassorbiti dal sistema stesso (tendenza morfostatica). La scuola non cambia, semplicemente si adatta: usa l'adattamento come tecnica di sopravvivenza. Gli adattamenti modificano soprattutto le cose e l'ambiente; i cambiamenti coinvolgono profondamente le persone".

(Thomas Gordon)

2. ATTACCAMENTO AL PASSATO

Lo specifico ruolo della scuola è quello di sedere tra il passato e il futuro per consegnare nelle mani delle nuove generazioni la memoria di un popolo, il passato, e nel contempo aiutarle a stare nel mondo in cui sono e a comprendere le modalità con cui dovranno viverci da adulti.

In realtà, la scuola ottempera solo al primo compito, sia per i contenuti che per le modalità erogative dei saperi, e determina in sé una condizione intrinseca di squilibrio e infelicità. Per la stragrande maggioranza degli alunni la vita scolastica è una medicina amara e inefficace.

Uno dei meriti storici della scuola è stata la lotta all’analfabetismo. La scuola, garantendo gratuitamente l’accesso all’istruzione primaria di massa, ha dato risposta alla domanda sociale di alfabetizzazione del popolo italiano. L’istruzione primaria universale è stata la chiave che ha sottratto dalla marginalità gran parte del popolo italiano, creando nuove opportunità di lavoro. Ciò ha favorito la crescita sociale ed economica e ha portato con sé un maggiore benessere materiale per una più larga fetta di popolazione. Prendere, dunque, l’amara medicina di una scuola che istruiva, seppure ruvidamente, le giovani generazioni aveva un senso in passato.

Oggi la medicina amara che viene somministrata a milioni di studenti sembra non avere più effetti curativi. Se questa “medicina” in passato rappresentava il mezzo necessario per accedere al mondo lavorativo e trovare il proprio ruolo nella società, oggi nel leggere le statistiche sugli alti tassi di disoccupazione che provengono dal mondo del lavoro, ci accorgiamo che i tempi sono cambiati.

Cosa raccontare, allora, a un bambino che deve quotidianamente ingoiare l’amara medicina senza trarne alcun beneficio, né immediato e né futuro?
Come giustificare ai suoi occhi la necessità di rinchiudersi ogni giorno in un luogo di privazione estetica e sensoriale, motoria ed esperienziale, senza trarne alcun vantaggio?

3. MANCANZA DI PENSIERO SISTEMICO

Peter Senge, docente presso il MIT e teorico della Learning Organization, ritiene che il pensiero sistemico sia una delle indispensabili skill del futuro.

Abbiamo necessità, secondo Senge, di educare i giovani alla consapevolezza di essere immersi in una realtà complessa nella quale ogni parte è compresa in un sistema più grande, dove il tutto non è la somma delle parti, ma è “più della somma delle sue parti”, perché ad esse si aggiungono le relazioni tra le parti, i legami di interdipendenza.

Il pensiero sistemico è innato nell’uomo, ma rischia di atrofizzarsi se non lo si coltiva sin dalla più tenera età. L’approccio scolastico tradizionale, con la sua parcellizzazione delle discipline, è indubbiamente un ostacolo al pensiero sistemico.

Già Auguste Comte nel XIX secolo aveva messo in guardia gli intellettuali circa i pericoli di una eccessiva specializzazione della conoscenza, che avrebbe finito col far perdere di vista il legame che unisce i saperi.

La separazione delle materie di insegnamento porta ad una visione frammentaria del mondo, una “schizodemia”, ossia una “dissociazione della visione del mondo”, con innegabili conseguenze negative sia sullo sviluppo equilibrato del sé, che sulla strutturazione della dimensione sociale dell’individuo.

Quando un individuo non riesce a misurarsi con la complessità in maniera adeguata, le sue risposte, personali e sociali, diventano rigide e inflessibili. Allo stesso modo può reagire un’istituzione scolastica, tesa a conservare se stessa e chiusa ad una gestione efficace dell’ipercomplessità.

Le risposte rigide genereranno un insegnamento altrettanto rigido e produrranno individui scarsamente inclini al cambiamento e, nel complesso, “una società che non vuole cambiare”.

Pensare in maniera sistemica per un insegnante significa accettare l’idea che un alunno non sia solo mente, ma un intreccio complesso di mente e cuore, cognizione ed emozioni e che un cambiamento, anche minimo, in un sistema modificherà anche l’altro.

È il famoso effetto farfalla analizzato da Konrad Lorenz, applicabile anche alle analisi e alle pianificazioni didattico/educative.

Per superare la visione parcellizzata è necessario ricominciare a creare reti nell’individuo, tra le persone e tra le discipline.

Una visione sistemica può apportare enormi benefici al singolo e alla comunità umana. Sentirsi parte di qualcosa di più grande dona ottimismo, consapevolezza di sé e di quello che ci circonda, rende l’individuo attivo e propenso a spendersi per cause sociali.

La scuola del futuro dovrebbe favorire la disposizione a ragionare sia in termini analitici che sistemici, passando dal dettaglio all’insieme e viceversa. L’uomo del futuro deve saper smontare per analizzare, ma anche riunire, collegare, inserire dei contenuti in un contesto più ampio che li comprenda.

4. ANACRONISMO DELLA LEZIONE FRONTALE

Cosa succede al cervello nel corso di una lezione frontale? La comunicazione unilaterale, dall'insegnante all'alunno, dall'alto in basso, per quasi tutto il tempo dell'orario scolastico genera noia e passività.

Lo si vede dai corpi e dai volti "destrutturati" degli alunni, accasciati scompostamente sui banchi di scuola.

Quando la corteccia cerebrale riceve passivamente e per lungo tempo degli input, l'attività metabolica del soggetto cala. L'ormone adrenalinico viene secreto in minore quantità. L'attività muscolare si riduce, così come il livello di sangue che irrora il cervello. Si crea, dunque, una spirale viziosa di input-output in modalità lenta. Chi è stato tra i banchi di scuola, per almeno 10 anni, avrà sperimentato questa condizione in maniera quasi costante.

La lezione frontale andrebbe considerata come un residuato della scuola che fu. È su questo aspetto che la scuola deve voltare pagina. La lezione frontale è una cattiva abitudine istituzionale da rimuovere il prima possibile, trasformando l’insegnante in coach, in facilitatore della conoscenza dell’alunno, che apprende da sé attraverso un metodo di studio più attivo, flessibile e coinvolgente basato sulla ricerca individuale o di gruppo del materiale di studio e sulla successiva elaborazione, attraverso il lavoro partecipativo degli studenti, che confluisce in una multiforme varietà di prodotti multimediali.

L’abolizione della lezione frontale porta con sé una riconfigurazione del contesto formativo, più funzionale e rispondente alle nuove esigenze di apprendimento. Niente cattedra, niente banchi in fila, niente classi, né campanelle.

Qualunque cambiamento sarà solo illusorio finché gli alunni continueranno a stare seduti per almeno cinque ore al giorno su una sedia (che se è sana è una vera fortuna) ad ascoltare, passivi, annoiati e rassegnati, contenuti unidirezionali che trasformano la sua mente in un colabrodo.

5. AUTORITARISMO

David Hargreaves, Docente di Pedagogia all’Università di Cambridge, definisce la scuola come “una realtà prodotta da una curiosa mescolanza: un po' di fabbrica, un po' di manicomio e un po' di prigione”.

Quello scolastico è uno spazio rigidamente strutturato, organizzato in aule incomunicanti e corridoi costruiti come caserme per separare gli alunni, dall’esterno e all’interno, che evidenzia la mancanza di riguardo per l'attività autonoma dello studente, o, peggio, la volontà di costringerlo alla perenne dipendenza dall'adulto.

L’autoritarismo è un tratto distintivo della scuola. La disciplina scolastica si regge sulla paura. I bambini vengono segregati per 5-8 ore al giorno tra quattro mura, alienati dalla vita e assoggettati all’autorità di un insegnante che soffoca la libertà, la creatività, i bisogni dei bambini e uccide in loro il naturale desiderio di apprendere con entusiasmo, costringendoli ad assorbire meccanicamente nozioni astratte, nel rispetto di un programma uguale per tutti.

Questo stato di cose può essere mantenuto soltanto con la violenza, che assume, il più delle volte, la forma di violenza psicologica e verbale e, talvolta, sfocia anche nella bruta violenza fisica. In un video shock di pochi secondi, ripreso con un cellulare da un alunno, si vede un maestro che picchia selvaggiamente con una verga un alunno al corpo e alla testa. Non scandalizziamoci troppo. Questa barbara violenza fisica è soltanto la punta dell’iceberg della diffusa e profonda violenza strutturale che permea l’istituzione scuola. Una violenza strutturale che alimenta paternalisticamente l’obbedienza cieca, il servilismo, il pensiero acritico e il conformismo.
Un sistema istituzionale non può fondarsi sulla buona volontà del singolo. Nella scuola lavorano molti bravi insegnanti, che purtroppo sono costretti a muoversi all'interno di un sistema strutturalmente violento. Come osserva John Taylor Gatto, “la logica astratta delle istituzioni sovrasta i contributi individuali. Sebbene gli insegnanti si interessino e lavorino molto, molto duramente, le istituzioni sono psicopatiche; non hanno coscienza”.
Tenere un bambino inchiodato ad una sedia per 8 ore è violenza, tenere un bambino lontano da qualunque tipo di attività pratica utile all'apprendimento è violenza. Tenere un bambino lontano dal "mondo brulicante colorato e vivente, in cui i fenomeni sono associati diversamente da come li presentano i manuali" (H. Roorda) è violenza.

5. SCOLLAMENTO TRA SCUOLA E MONDO

Mary Budd Rowe, una ricercatrice americana, ricevette, quando era studentessa, una lezione di scienze improvvisata da Albert Einstein. La Rowe lo incontrò un giorno nel campus di Princeton. Einstein, mentre fissava una fontana, le chiese se avesse potuto fermare l'acqua abbastanza a lungo per vedere le singole gocce e le mostrò come muovere le mani fino a creare l'effetto stroboscopico, che sembrava rallentare il flusso delle singole gocce. Anni dopo, l’impegno della Rowe divenne quello di insegnare ad adulti e bambini di tutto il mondo il senso della lezione di Einstein: la scienza è esplorazione ed è divertente.

Nella quasi totalità dei Paesi occidentali, bambini e ragazzi, anziché vivere a contatto con la realtà quotidiana e la vita all’aria aperta, sono obbligati, per legge, a restare chiusi in un’aula scolastica.

Le loro attività sono rigidamente strutturate secondo un modello standardizzato, teso ad uniformare pensiero e azione.

A scuola tutto si svolge secondo modalità lineari e di routine, mentre la realtà è composita e imprevedibile.

Secondo John Taylor Gatto, "le routine della scuola sono folli”. Ma il sistema scolastico, concepito come una gigantesca catena di montaggio deve, per sua natura, infondere nei suoi utenti l’amore per la monotonia.

Nell’universo-scuola tutto scorre secondo tempi rigidamente scanditi, in una relazione univoca insegnante-alunno e in una dimensione completamente avulsa dal mondo esterno, nella quale gli insegnanti, secondo uno schema sempre uguale, entrano in classe, fanno l’appello, spiegano, interrogano e assegnano i compiti per casa.

Ancor più amara è la considerazione di Maria Montessori, che riteneva la scuola non soltanto “un mondo a sé”, ma anche un mondo “chiuso ai problemi sociali”.

Lo scollamento tra scuola e realtà è ancora più dannoso se lo si considera in termini di responsabilità verso la comunità alla quale si appartiene.

Non è un caso che il Service Learning, una modalità educativa nata in America e poi importata dall'America Latina e dall'Europa, sia quasi sconosciuto in Italia.

Si tratta di un approccio pedagogico che fonde apprendimento e servizio alla comunità. Il suo slogan è “imparare serve, servire insegna”. Attraverso il Service Learning gli alunni vengono messi di fronte alla possibilità di analizzare i bisogni del proprio territorio e di darvi risposte concrete utilizzando le conoscenze apprese a scuola. Questo processo educativo stimola negli alunni motivazione, impegno e abilità pratiche e getta il seme del cittadino smart del futuro.

6. REPULSIONE PER I LIBRI

Nel romanzo "Il mondo nuovo”, la realtà distopica immaginata da Aldus Huxley, i bambini vengono condizionati a odiare rose e libri, rendendoli dapprima incredibilmente attraenti agli occhi dei bambini. Una corsa a gattoni verso gli oggetti del desiderio. Poi l’orrendo suono e la scossa elettrica. L’orrore nei loro occhi. Le urla e il pianto disperato dei bambini.

Si attende un po’ e si ripresentano i due elementi. Ora i bambini piangono alla sola vista di fiori e libri. Il gioco è fatto!

Perché molti italiani provano repulsione per i libri e la lettura? Perché la maggior parte di loro chiude ogni relazione con i libri dopo la scuola? Perché, paradossalmente, la scuola induce un tale condizionamento?

A scuola dovremmo apprendere l’arte di amare i libri. Qualcosa evidentemente non funziona.

Nel tempo e con metodo la scuola sviluppa nella maggioranza dei suoi utenti l’indifferenza o addirittura l’avversione per i libri e la lettura al di fuori dell’obbligo scolastico.

Lo squallore degli edifici, le muffe, la polvere, le crepe sui muri sporchi, sembrano voler instillare nei bambini il senso del brutto, della tristezza, dell'angoscia. Gli odori stantii, le sensazioni negative, si mescolano inestricabilmente, sedimentandosi nella memoria e lasciando in molti ex studenti quel ricordo sgradevole e opprimente che tiene uniti libri e sofferenza, cultura e infelicità.

Come nelle reminiscenze proustiane, accade, spesso inconsapevolmente, che le pagine di un libro lascino riaffiorare mesti ricordi che istintivamente destano meccanismi di autodifesa.

In Italia non si leggono libri, né cartacei né elettronici. Il 55% degli italiani non legge mai un libro. L’Italia è pervasa da un preoccupante tasso di analfabetismo di ritorno. I dati italiani sull’analfabetismo di ritorno e funzionale evidenziano che il 35% degli italiani non riesce a comprendere un semplice testo, mentre uno scritto di due o più pagine è incomprensibile per il 70% degli italiani.

Sono dati catastrofici, che implicano gravissime ricadute sulla consapevolezza, libertà dei cittadini, capacità di comprensione della società e del mondo, conoscenza ed esercizio dei diritti e partecipazione politica.

Questi dati dimostrano quanto l’Italia sia ancora lontana dall’ideale di Smart citizen.

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Steve Jobs School. Un modello per le scuole del futuro

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