Smartphone, Angry Birds e Apollo 11
Tre milioni d’anni fa il progenitore dell’homo sapiens era un piccolo organismo dentro una pozza d’acqua. Successivamente l’uomo si è evoluto ed è stato capace di andare sulla Luna con il programma Apollo 11.
Oggi, a cinquant’anni dalla prima missione Apollo 1, il codice sorgente del programma NASA Apollo 11, che ha guidato Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna, è diventato open source.
Il computer del modulo di comando, l’Apollo Guidance Computer, aveva una potenza di elaborazione di una calcolatrice tascabile ed era dotato di un processore di 4 Kb di RAM, con una memoria di archiviazione di 60 Kb.
L’aspetto sorprendente è che ogni possessore di uno smartphone ha tra le mani uno strumento potenzialmente capace di controllare in simultanea un milione di missioni Apollo 11, con una velocità di elaborazione mille volte superiore a quella di quarantasette anni fa.
Uno smartphone è un coltellino svizzero digitale multitouch che racchiude in sé un ufficio portatile, con segretaria personale, telefono, fax, fotocopiatrice e archivio, una fotocamera, una videocamera, un registratore vocale, un lettore musicale, uno studio radiofonico e televisivo portatile, una tipografia, una biblioteca, un’edicola, una calcolatrice, un album fotografico, un diario, un navigatore e, con un collegamento ad internet, anche una porta aperta sul mondo.
Lo smartphone concede a chi lo utilizza un potere straordinario, assolutamente inimmaginabile fino a vent’anni fa. C’è da chiedersi quanto l’uomo moderno sia consapevole del potere racchiuso in quel multiforme “amplificatore” della mente umana chiamato smartphone, uno strumento che l’utente italiano medio capisce poco e di conseguenza utilizza per lo più male. E’ sufficiente andare in giro nel cyberspazio per imbattersi in messaggi banali o offensivi su WhatsApp, leggere di teenagers che giocano per ore ad Angry Birds, osservare sui social selfie di labbra protruse a canotto, esibizioni di “salsicciotti” al mare o post su Facebook di frasi banali (buon giorno, buon pomeriggio, buona sera e buona notte) a corredo di foto altrettanto banali.
C’è da chiedersi quanto l’avversione storica della scuola per la tecnologia abbia contribuito ad aggravare le difficoltà e le percezioni errate legate all’uso dei dispositivi informatici. Questo aspetto merita un supplemento d’indagine.
Attualmente, nelle scuole italiane è in vigore la Circolare Ministeriale n. 30 del 15 marzo 2007: “l’uso del cellulare e di altri dispositivi elettronici rappresenta un elemento di distrazione sia per chi lo usa che per i compagni, oltre che una grave mancanza di rispetto per il docente configurando, pertanto, un’infrazione disciplinare sanzionabile attraverso provvedimenti….”. Di recente, il Sottosegretario del MIUR Davide Faraone ha comunicato che il Ministero dell’Istruzione sta riflettendo sulla possibilità di colmare il gap digitale della scuola italiana con l’abolizione del divieto di utilizzare smartphone a scuola, perché è arrivato il momento di sfruttare in ambito educativo i vantaggi legati all’uso dei dispositivi digitali. Era ora.
Tuttavia, docenti e genitori, vittime di luoghi comuni e di decenni di idiosincrasia per il digitale a scuola, in merito all’apertura agli smartphone in classe si sono espressi negativamente. Ma il processo di digitalizzazione della vita scolastica non potrà essere ancora una volta fermato dal pregiudizio neoluddista di molti docenti e genitori. E’ capitato a un’insegnante di scuola primaria di dover fronteggiare una mamma seriamente preoccupata perché la programmazione individualizzata prevedeva, per suo figlio, l’utilizzo di un tablet fornito di applicazioni didattiche selezionate ad hoc. Nella rappresentazione mentale della mamma l’uso del tablet equivaleva ad una perdita di tempo e significava organizzare per suo figlio una pianificazione poco seria delle attività didattiche, al limite del ludico. “Col tablet gioca già a casa”, ha affermato la mamma. A scuola si fanno cose serie! E le cose serie per questa madre non hanno a che fare con il digitale.
Questo immaginario è il frutto di un uso genitoriale errato della tecnologia digitale che, anziché essere presentata ai propri figli come “bicicletta per la mente”, viene utilizzata come surrogato parentale con funzioni di intrattenimento e babysitting.
Questi pregiudizi vengono avallati da un mondo scolastico che si ostina a trasmettere le conoscenze alle menti multitasking dei nativi digitali in pacchetti nozionistici di formato analogico, nel XXI secolo così come quando fu inventata la scuola pubblica.
C’è chi parla di incompatibilità della lezione frontale del docente con l’utilizzo contemporaneo degli smartphone da parte degli alunni. In realtà, il problema non è l’uso degli smartphone o dei laptop, ma la lezione frontale che andrebbe considerata come un residuato della scuola che fu. E’ su questo aspetto che la scuola deve voltare pagina. La lezione frontale è una cattiva abitudine istituzionale da rimuovere il prima possibile, trasformando l’insegnante in coach, in facilitatore della conoscenza dell’alunno autodidatta.
In un mondo che evolve rapidamente, la tecnologia digitale è l’emblema della crisi dell’istituzione scuola, che non si può continuare ad ignorare. La scuola ideale è agente di mindfullness; non può restare indifferente e distante dalle istanze provenienti dall’infosfera, ma deve evolversi come agente di consapevolezza.
Essere consapevoli delle straordinarie possibilità e del potere per il cittadino partecipante racchiuso negli smartphone “è ciò che fa la differenza tra un semplice consumatore di gadget elettronici e un cittadino autonomo e responsabile”. (1)
Note
(1) Howard Rheingold, Perché la rete ci rende intelligenti, Raffaello Cortiana Editore, Milano, 2013, p. 29.